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Lettera aperta: Agropoli, la futura città fantasma


Avevo altri titoli più violenti per parlare, ahimé, della mia città. Ma, pur non volendo offendere nessuno, occorre dire la verità. La mia città è una città forse come le altre. Giudicate voi. In questa città, la disoccupazione è uno spettro su tutta una generazione di persone che va dagli anni ‘80 ad oggi. Non sono un esperto, quindi parlo solo dell’oggi. Non sono nemmeno un economista, ma so cos’è il buon senso. E so che una città rispecchia un popolo e la sua cultura, intesa non come insieme di manifestazioni estive sul folklore, ma come un modo di vedere e trattare la gente. Parte della cultura è l’economia, che è, contrariamente a idee “forziste o forzate”, lo sviluppo e la distribuzione del bene comune, non l’accumulo. Ebbene, volete sapere come funziona l’economia di questa piccola città? Semplice, non funziona. Non funziona, perché i costi di una qualunque attività commerciale, e non, sono proibitivi. I proprietari immobiliari di Agropoli, che spesso e volentieri non sono nemmeno di Agropoli, chiedono una media di 700 euro mensili per un locale commerciale. Stessa quota si aggira per gli uffici. Ora, in un paese dove il reddito medio è di 800 euro, ditemi voi come si può vivere. Lo sfortunato giovane che vuole aprirsi una qualunque attività dovrà tenere in conto questo costo. Per guadagnare quegli agognati 800 euro, dovrà per forza aumentare il prezzo dei suoi sevizi (o merce).

Questo aumento allontanerà i clienti, perché quei clienti sono gli stessi che guadagnano in media 800 euro al mese e cercheranno posti dove risparmiare di più (cioè i grandi centri commerciali di questi neo-aristocratici che giocano al monopoli). Il guadagno diminuirà, il bilancio sarà sempre negativo e presto detto l’attività chiuderà. Negozi del genere aprono e chiudono nel giro di mesi. Il giovane è scoraggiato e andrà al nord, in una qualche città emiliana di turno, dove il terremoto è sì una catastrofe, ma dove gli aiuti in soldi arrivano in abbondanza e subito, al contrario di tutti gli altri abruzzi, campanie o calabrie. Il paese si spopola e da città si diventa città-vacanza, cioè dove i suoi abitanti saranno gli stranieri (non quelli che arrivano affamti in barconi o da Paesi violentati dalla nostra economia capitalistica) che vengono a divertirsi, si rilassano, usano e se ne vanno. Chi sta bene in questa città? Innanzitutto, chi riesce a fruttare quegli 800 euro mensili, e, cioè, chi ha un’attività ad alto tasso clientelare, come ristoranti e bar. A tal proposito, vi dico solo che le licenze di ristoranti e bar ad Agropoli, di fatto se non di norma, sono esaurite, quindi al giovane sfortunato non rimane che la boutique. Anche qui, mercato saturo. Rimangono i professionisti, come medici specialisti che, senza pensarci due volte, aumentano a piacere le parcelle (non proporzionali al tempo di lavoro ma al prestigio del nome) e così ogni anno vedremo nuove barche di lusso nel nostro porto.

Rimangono loro, i proprietari immobiliari, i veri padroni, che chiudono le porte a qualsiasi sviluppo economico perché non sono interessati all’investimento ma al denaro. Non parlo di chi non ha che l’affitto del suo locale per campare una famiglia corposa, ma mi sembra che casi del genere siano rari. D’altra parte, tutti i locali che ho visionato personalmente per una attività appartenevano a gente non residente. E poi ci sono le banche, tante banche. In un anno, ne ho viste nascere tre, più le quattro che c’erano prima. Mi chiedo, in un paese dove non girano i soldi, a cosa servono tante banche? Chi mai le userà? Sono persuaso dall’idea che è la solita gente non residente ad usarle. La stessa avarizia e mancanza di sacrificio verso l’alto si ritrova in chi possiede appartamenti ad uso abitazione. Per incamerare sempre più soldi, questi signori fanno un semplice calcolo. Moltiplicano 600 euro per 12 (=7200) e poi dividono per tre, cioè i mesi estivi (=2400euro). E così affittano solo nei tre mesi estivi a prezzi enormi, incassando l’equivalente di un anno. Cosa fanno il resto dell’anno? Semplice, affittano, ma fino a giugno. Sì, perché, noi siamo un paese di nomadi a cui piace spostarci ogni sei mesi. Inoltre, ci sono i cosiddett “extra-comunitari” (parola orrenda e senza senso in un mondo ormai multiculturale) che, non avendo nessun diritto, essendo dei poveracci che si accontentano, prenderanno una qualunque casa, magari sporca e fredda, allo stesso prezzo, cioè 600 euro. Ecco come è fatta la mia città, più o meno, e, ovviamente senza contare le eccezioni, poche, in cui il dio denaro è vinto da un altro dio, lo stesso che duemila anni fa disse che siamo tutti fratelli. Ma come amava citare mio zio, spesso questa gente la intende così: “Fratelli di religione, ma non di prosciutto e provolone”.

Soluzioni? Poche, fino a quando nessuno vorrà fare un piccolo sacrificio. Nel nostro paese il problema è questo implicito motto che ognuno usa: sto bene io, stanno bene anche gli altri. Invece, il segreto è proprio il contrario: stanno bene gli altri, starò bene anche io. Ad esempio, perché non dimezzare gli affitti commerciali, perché non renderli proporzionali al volume di affari? In questo modo si favorirà la creatività e ci sarà un ritorno effettivo, perché saranno abbattutte all’unisono le spese, da una parte e dall’altra. Intellettuali del calibro di La Pira hanno ampiamente dimostrato questo principio come efficace per l’economia e ci sono civiltà, come quella giapponese, che sono fondate su questo principio. E non c’è differenza fra una città di 20000 abitanti e una di un milione. Non c’è che dire, o è tutto da rifare o questa città pian piano diventerà una città fantasma, cioè scomparirà l’identità storica.




di Ermanno Licenziato

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